Comune di Modena
Servizio Pianificazione Urbanistica   Modena nel 2000
 


il Resto del Carlino 5.3.1986  -  La Stampa 8.8.1986
il Resto del Carlino 17.12.1986  -  il Giornale 13.1.1987


mercoledì 5 marzo 1986
il Resto del Carlino

New York copia Modena
Docente Usa vuole importare modello dei villaggi artigiani per dare un lavoro ai disoccupati e per "recuperare" il Bronx

Roberto G. Rolando

MODENA - Se il Bronx, quartiere più disgregato di New York, dove - si dice - neppure la polizia osa avventurarsi di notte, troverà un giorno la strada del recoupero umano e sociale, in parte lo si dovrà ai modenesi.
Un docente universitario americano, il prof. Richard Hatch, dell'Istituto tecnologico del New Jersey e insegnante presso la scuola di architettura di Newark, un centro non lontano dalla omonima New York, ha deciso di «importare nella megalopoli statunitense il modello dei villaggi artigiani che sorgono ai quattro punti cardinali della città della Ghirlandina.
Obiettivo primario quello di assorbire una parte degli oltre 500 mila disoccupati che affollano gli uffici di collocamento nuovaiorchesi, dopo la crisi industriale di questi ultimi anni.
 
«Il villaggio artigiano, così come è stato concepito in Emilia - Romagna e particolarmente a Modena, costituisce una delle soluzioni più interessanti al problema della disoccupazione - dice il prof. Hatch - che è molto pesante anche a New York, ormai non più capitale dell'industria americana. L'artigianato può dunque assorbire parte di questa popolazione ridotta alle corde. Abbiamo mo gli operai specializzati, gli spazi, la possibilità di finanziamenti e la collaborazione dell'autorità portuale di New York.
 
Il prof. Hatch è stato a Modena in diverse occasioni per studiare le caratteristiche del fenomeno dei villaggi artigiani che, dalla fine degli anni Cinquanta in poi ha costituito una delle più qualificanti realizzazioni sul nostro territorio, soprattutto in termini di occupazione, ma anche di strutture e organizzazione, uso diffusissimo del «capannone», insediamenti caratterizzati, ciascuno, da differenti materiali lavorati, coesistenza molto spesso dell'«impresa» con l'abitazione dello stesso artigiano e della sua famiglia).
 
Hatch, che è in stretto contatto con un altro studioso di problemi socio - economici modenese, il prof. Sebastiano Brusco della facoltà di Economia e commercio, ha già attuato a New York alcune realizzazioni embrionali di mini - villaggi artigiani, con l'aiuto delle parrocchie. Ora sta progettando la realizzazione di insediamenti artigianali veri e propri, soprattutto di imprese metalmeccaniche, in collaborazione con la Port Authority.
 
«La creazione di villaggi artigiani a New York - dice Piero Pedroni dell'associazione modenese della Cna (Confederazione nazionale artigianato) - dovrebbe incontrare la massima adesione: là, chi lavora "sotto padrone" incontra grosse difficoltà. Per gli americani è molto più gratificante lavorare in modo autonomo, diventare piccoli imprenditori, magari solo di se stessi».
 
La sfida del prof. Hatch si concentrerà soprattutto nei quartieri dove maggiore è il fenomeno dell'emarginazione sociale, dovuto in gran parte, ma non solo, dalla disoccupazione galoppante. Ne parlerà oggi a Modena a un convegno sulle innovazioni tecnologiche e sul mutamento organizzativo nelle imprese artigiane, che si terrà alle 15,30 alla Camera di Commercio, presenti fra gli altri, Arnaldo Bagnasco (Università di Torino), Vittorino Capecchi (Ateneo di Bologna) e Werner Sengerberger di Monaco di Baviera. Al centro degli interventi una ricerca svolta sull'artigianato


 


venerdì 8 agosto 1986
La Stampa

Come si vive oggi in Italia nelle periferie delle grandi città: Modena
Qui il paradiso è fuori porta
La vivibilità della cittadina emiliana e dei suoi villaggi artigiani è studiata e presa ad esempio - Fioriscono le polisportive dove la gente si ritrova per giocare a bocce e ballare - Nessuno si sente emarginato e anche il grave problema del traffico, grazie alla bicicletta, è stato felicemente risolto

Sandro Doglio

Dei 178 mila modenesi registrati all'anagrafe, soltanto 12 mila vivono nel centro storico (erano 30 mila negli anni del primo dopoguerra). Gli altri abitano fuori della vecchia cinta, in una grande e ordinata periferia con viali, giardini, campi sportivi, pergolati di uva che ombreggiano campi da bocce e tavolate allegre. Una periferia dove caseggiati d'abitazione si alternano a ville foderate con le piastrelle di ceramica di Sassuolo e sobrie casette bifamigliari si affiancano a tentativi di imitazione di grattacieli: dove ci sono strade e superstrade in quantità americana, con ponti, sovrapassaggi, passerelle per pedoni.
 
Proprio questa città e la sua periferia sono state portate a esempio in recenti convegni internazionali: a Tokyo si è appena svolto un seminario sull'espansione urbana di Modena, in gennaio a New York, a livello universitario si è studiata la formula dei villaggi artigiani realizzati nella cintura modenese.
Un esempio da guardare, insomma se si vuol tentare di capire come si vive, come si potrebbe vivere oggi nelle periferie delle città italiane.
 
«I problemi, naturalmente, li abbiamo anche noi - dice l'architetto Pier Camillo Beccaria, assessore comunale all'Urbanistica - ma sono probabilmente meno gravi di quelle di altre città, a Modena il problema dell'ampliamento urbano è forse stato posto con anticipo. Il primo villaggio artigiano per raggruppare le piccole attività in appositi capannoni, con servizi collettivi, mense, eccetera, data dal 1949. Le norme per la costruzione delle nuove abitazioni, stabilite nel '65, già imponevano un garage interno e un posto macchina nel cortile per ogni nuovo appartamento. Non è stato facile farle adottare: ancora dieci anni fa c'era chi le contestava, sostenendo che si stavano creando troppi parcheggi. Ma nel '65 c'erano appena 18 mila macchine in città, oggi ce ne sono 80 mila. All'inizio nei garage la gente metteva, anziché le auto, i telai per fare le maglie a domicilio; oggi se ne dovrebbe costruire doppio per rispondere alle esigenze della motorizzazione.»
Beccaria snocciola statistiche che dimostrano la «vivibilità» della periferia di Modena: «in media l'italiano per andare al lavoro impiega tre quarti d'ora, a Modena ci si va in quindici minuti appena. Il 40 per cento del movimento pendolare tra periferia e centro si avvale dell'automobile, ma il 20 per cento si serve dell'autobus pubblico e un altro 40 per cento va in bicicletta, con il motorino o semplicemente a piedi. Sono dati che acquistano peso se tiene a mente che Modena è tra le prime venti città d'Italia per popolazione e l'ottava per reddito.»
 
Al di là delle norme di costruzione, della profusione di servizi realizzati e della preveggenza dei programmatori urbani (i quali per la verità ancora in anni recenti pensavano a una Modena con mezzo milione di abitanti e ne avevano immaginato il disegno su quella dimensione, rivelatosi poi tre volte più grande della realtà), la vita nella periferia della patria di Pico Della Mirandola, Muratori e Alessandro Tassoni è resa più facile e piacevole dall'inventiva, dalla socialità dei modenesi. «Indole bizzarra» - li definiva Guido Piovene - ma anche gente cordiale, dall'amicizia facile, dal forte istinto cooperativo, come un po' tutti gli emiliani e i romagnoli.
 
«Ritorni stasera e capirà che cosa significano davvero queste strutture» dice il gestore di una delle sette o otto polisportive sorte in periferia, mostrandoci campo di calcio, giochi da bocce, pista da ballo, bar e grandi e ombreggiati spazi per tavolate che si possono immaginare numerose, vocianti e allegre. Le polisportive sono un fenomeno esclusivo di queste parti: gli abitanti della zona si uniscono in cooperative, ognuno versa una fetta del capitale sociale (1 milione, 1 milione e mezzo a testa), poi sul terreno comunale la gente si rimbocca le maniche e nelle ore libere costruisce muri, spiana terreni, pianta alberi.
«E' un'esperienza difficile da fare in altre città» ammette l'arch. Beccaria, ma qui a Modena questa faccenda delle polisportive ha cambiato volto alla periferia permettendo di realizzare «microidentità», piccoli ma ben individuati centri di interesse e di incontro che gli abitanti del quartiere sentono «loro», come agorà del ventesimo secolo.
 
Torniamo alla polisportiva di sera, una sera qualunque a metà settimana. Giovani e anziani, ragazzi con la moto e pensionati con la sacca delle bocce, giovinotte con magliette straordinariamente aderenti e tanta voglia di ballare, bambini vocianti e irrequieti, mamme con li pupo al seno. Tra la folla è facile, quasi inevitabile, trovare chi offre un bicchiere di lambrusco ed è ansioso di raccontare: «Veniamo qui quasi tutte le sere, siamo tra amici, gente che ha gli stessi problemi ma anche gli stessi interessi», dice il sindacalista. Ermanno Ugolini, «In centro ci va ogni tanto mia moglie per fare compere importanti, ma la nostra vita ormai è qui», sostiene Michele Lusini, operaio a Maranello.
 
Alla polisportiva ci vengono il muratore e l'avvocato, il tessitore che lavora a Carpi e l'operaio della Maserati, il negoziante e lo studente, il disoccupato in cerca di lavoro e l'aspirante tenore per farsi applaudire dagli amici. I modenesi di S.Faustino, del villaggio Giardino, della Madonnina, del Buon Pastore o del «Direzionale 70» - così si chiamano i centri periferici di Modena - sembrano trovare quasi sulla porta di casa ragioni sufficienti per non sentirsi emarginati, per non avvertire la scomodità di vivere lontani da Piazza Grande o dalle viuzze del centro storico, come capita invece in altre città d'Italia.
 
A Modena il problema non è di convincere la gente che si può vivere bene in periferia: è semmai quello di far tornare qualcuno nel vecchio centro, che perde ogni anno abitanti e nel quale si aggirano un po' spaesati e incerti sul da fare gli allievi dell'Accademia Militare in libera uscita, con le loro divise un po' desuete. In dieci anni si sono restaurati 1500 appartamenti (600 a spese del Comune), si sta ampliando la zona pedonale: «Il centro è di nuovo vivibile - dice Beccaria - ma è difficile convincere le famiglie a venirci ad abitare. Per lo più ci vengono soprattutto i "solitari": giovani ancora senza casa, anziani, qualche persona di un certo reddito che, dopo essersi costruita la casetta con giardino e piscina nella periferia ricca di Castelnuovo, si sente ora un po' isolata, senza quelle occasioni di vita in comunità sociali che sono sorte un po' dappertutto, nel grande suburbio modenese.»
 
«A Modena, anche nelle ore di punta, è difficile trovarsi invischiati in un ingorgo di traffico - sostiene il vigile Marcolin - ma non è soltanto per merito delle strade e delle biciclette, è che la gente di Modena non sente il bisogno di venire in centro. Se ne sta bene in periferia».


 


mercoledì 17 dicembre 1986
il Resto del Carlino

Bronx chiama Modena
ll modello dei nostri villaggi artigiani trapiantato a New York
Le autorità portuali della città statunitense in visita al «Torrazzi»

Roberto G. Rolando

Gli artigiani modenesi sono sbarcati nel Bronx, il quartiere più «povero» e con i maggiori indici di criminalità della grande New York. In accordo con l'autorità portuale della megalopoli americana, essi concorreranno col loro «modello» al recupero economico di quella vasta zona degradata nel tentativo di creare nuovi posti di lavoro, in una città che conta ormai oltre un milione di disoccupati.
 
La grande industria è entrata in crisi e soltanto l'imprenditoria artigianale del tipo emiliano - ha detto il prof. Richard Hatch dell'Institute of Technology del New Jersey - potrà dare una mano a risalire la china». E' scattata così in ottobre l'«Operazione Colombo», un convegno svoltosi a New York che ha avuto come tema la ricerca di una «via americana» alla piccola impresa artigiana, in grado di rilanciare il business e l'occupazione.
Espressamente invitati dalla Porth Authority sono stati i dirigenti modenesi e emiliani della Cna (Confederazione nazionale artigianato), che nei mesi scorsi avevano ricevuto la visita del prof. Hatch.
 
Dal convegno americano è scaturito un grandioso progetto per la realizzazione nel Bronx di 500 mila posti di lavoro, proprio attraverso l'istituzione di aziende artigiane simili a quelle esistenti nella nostra realtà.
«Un modello dì sviluppo - dicono alla Cna - che ha superato con forza la crisi degli anni '82 e '83 e ha saputo introdurre e gestire l'innovazione tecnologica, creando al contempo nuova occupazione. Nella nostra regione la Cna svolge un ruolo chiave, non solo perché ad essa sono iscritti il 54 per cento degli artigiani, ma per il livello qualitativo dei servizi che essa eroga. Tutto questo ha consentito di trasformare i mestieri in professioni, le botteghe in imprese, l'artigiano in manager».
 
Dopo il viaggio degli emiliani a New York (c'era anche il presidente della Regione Turci e questa «sponsorizzazione» non è piaciuta alla Dc che ha presentato in merito un'interrogazione alla Giunta), nei giorni scorsi è stata nella nostra città la signora Rosemary Scanlon, il «numero due» della Porth Authority (che fra l'altro sovraintende alla ristrutturazione di vaste aree territoriali di New York). La sua permanenza a Modena si è articolata, dopo un incontro con i dirigenti della Cna, in una visita ad alcune aziende metalmeccaniche e all'insediamento artigiano dei «Torrazzi».
 
Il modello economico dell'Emilia rossa» piace dunque agli americani? I tecnici nuovaiorchesi non hanno guardato all'aspetto politico, ma, da buoni pragmatisti, a quello economico.
«E' semplicemente un'occasione voluta da importanti operatori di New York - ha detto recentemente il prof. Charles Sbel - per conoscere, attraverso i protagonisti, un vero e proprio modello funzionale, i suoi costi, i suoi vantaggi e, magari, i suoi difetti. I modelli degli anni Sessanta qui da noi stanno andando in pezzi provocando disoccupazione e calo di produzione. La riconversione delle imprese medio - piccole in Emilia, e a Modena in particolare, è stata fatta: ecco perché ci interessa».


 


martedì 13 gennaio 1987
il Giornale

Un esempio citato in tutto il mondo
Urbanistica d'avanguardia con una periferia «modello»
Una città a misura d'uomo
Solo 12 mila abitanti nel Centro storico

Marco Marcello

Il fatto vero - di cui i modenesi a malincuore accettano di parlare - è che a Modena si vive molto bene. L'anagrafe registra nella città 178 mila abitanti: sono solo 12 mila quelli che abitano nel centro storico e si sono più che dimezzati rispetto agli anni '50. Gli altri vivono in una amplissima zona intorno alla città che è disposta in modo molto razionale e gradevole in parte per come è ordinata, in parte per come hanno saputo trasformarla i suoi abitanti.
 
Non è un caso che in tutta una lunga serie di convegni internazionali sul modo di vivere la città media si sia portato, nel 1986, proprio Modena ad esempio. Addirittura a New York si sono studiate in Università le formule dei villaggi artigiani della periferia di Modena che in parte sono stati programmati e che in parte sono nati spontaneamente.
 
Tutto merito dell'amministrazione comunista? Diremmo senz'altro di no, anche se è obbiettivo riconoscere che non la si può «tagliar fuori da una serie di realizzazioni che sono indubbiamente razionali. Non dimentichiamo del resto che qualche anno fa fu proprio Modena, città «rossa» da sempre, che avviò con la finanziaria Eurogest un programma per il finanziamento della costruzione di alloggi residenziali destinati soprattutto a giovani coppie che non si diffuse poi nel resto del Paese, ma che aveva indubbi aspetti innovativi.
 
La periferia di Modena ha un grado di «vivibilità» nettamente superiore alla media anche per la razionalità degli spostamenti. Le statistiche dicono che la maggior parte degli italiani impiegano per andare al lavoro più di 35 minuti. Dalla periferia al centro di Modena si arriva in un quarto d'ora al massimo, anche perché la maggioranza dei modenesi o si serve della bicicletta e della motocicletta o va addirittura a piedi (il 40 per cento), oppure usa i mezzi pubblici (il 20 per cento), lasciando al restante poco più di un terzo l'uso dell'automobile.
 
Un'altra delle caratteristiche della città o, meglio, della sua periferia, è la capacità di creare strutture sociali che la qualifica nettamente al di sopra di quanto avviene nella media delle città italiane. Uno degli enti che più fioriscono nella zona è la cosiddetta Polisportiva: nome in un certo senso anche discutibile perché in molte polisportive, per esempio, si va nella maggior parte dei casi a ballare. Le polisportive sono caratterizzate da tutta una serie di possibilità di divertimento, che vanno da zone sportive vere e proprie (calcio, bocce, ecc.) a piste da ballo, a sale di ritrovo puro e semplice.
 
Questo tipo di istituzione, di solito, ha caratteristiche cooperative. Il capitale iniziale necessario è spesso versato dai soci pro quota, ma sono poi gli stessi soci che s'impegnano a lavorare per realizzare una parte cospicua delle strutture. Nelle polisportive la gente che, s'incontra appartiene alle più diverse classi sociali: c'é il professionista come l'operaio. In sostanza, insomma, la periferia modenese ha delle caratteristiche assai poco di dormitorio che sono invece la qualità negativa più evidente in molte città le cui dimensioni e il cui numero di abitanti è francamente paragonabile alla città emiliana.
 
In sostanza metteteci un hinterland gradevole; una mobilità nettamente superiore alla media; un centro vivibilissimo; una capacità di ristrutturare vecchi alloggi che ha pochi riscontri in altri comuni italiani; comprenderete perché la qualità della vita, a Modena, ha notevoli aspetti.
 
Ancora una volta, per chiudere con una nota sociologica, ci si stupisce che questa capacità di convivenza fra iniziativa privata e gestione della cosa pubblica (per di più dell'estrema sinistra) possa funzionare in modo così efficiente. Ci si può stupire, ma resta un fatto.

 
 
 
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